domenica 17 ottobre 2010

Immobile costruito durante il matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi - Corte di Cassazione, Sezione 1 Civile, Sentenza del 30 settembre 2010, n. 20508

La costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale sul terreno di proprieta' personale esclusiva di uno dei coniugi e' di proprieta' personale ed esclusiva di quest'ultimo in virtu' dei principi generali in materia di accessione. L'altro coniuge, che pretenda di ripetere le somme spese, e' onerato della prova d'aver conferito il proprio apporto economico per la realizzazione della costruzione attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni; di contro il coniuge proprietario non e' tenuto a dimostrare d'aver impiegato denaro personale, ne' personalissimo.(Corte di Cassazione, Sez. I, Sent. 30.9.2010, n. 20508)

(...)

MOTIVI DELLA DECISIONE

La ricorrente:

1.- Col primo motivo denuncia violazione degli articoli 177 e 179 c.c.. Ascrive alla Corte territoriale errore consistito nell'aver ritenuto che ella dovesse giustificare il proprio credito alla meta' del valore del cespite, provando d'aver contribuito con denaro proprio e per la meta' alle spese di costruzione, incorrendo in ulteriore errore nel valutare gli apporti in termini solo di denaro, anziche' nel quadro delle rispettive sostanze e capacita' di lavoro. La fondamentale distinzione fra denaro personale e denaro personalissimo, non percepita dal giudice di merito, poneva a carico dell'ex coniuge l'onere di provare d'aver realizzato la costruzione con denaro personalissimo.

Formula a conclusione quesito di diritto con cui chiede se, nel caso in esame, e' sufficiente dar la prova che il manufatto e' stato realizzato nel vigore del regime di comunione legale o se spetta al coniuge proprietario esclusivo la dimostrazione della realizzazione del manufatto con denaro personalissimo.

2.- Col secondo motivo denuncia violazione degli articoli 2, 3 e 39 Cost., e degli articoli 143, 177 e 179 c.c., con riferimento al principio costituzionale della parita' morale e giuridica fra coniugi, e si duole dell'omesso rilievo che avrebbe dovuto essere attribuito agli apporti al menage familiare da essa forniti in corso di costruzione.

Ascrive ai giudici di merito errata considerazione del contributo alle spese, siccome valutato solo in termini di erogazione di denaro, senza tener conto della sostanza dell'aiuto da essa prestato in cantiere ed in famiglia. Tale errata prospettiva ha orientato la valutazione delle risultanze istruttorie. Ribadisce infine che la donazione dei familiari del Ca. e' affetta da nullita', sicche' i materiali non possono ritenersi beni personali.

Formula quesito di diritto con cui chiede se in ragione del principio costituzionale di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, che parifica il lavoro casalingo a quello professionale, assuma rilievo nella previsione dell'articolo 177 c.c., il lavoro manageriale del coniuge diretto alla cura dei figli.

Col terzo motivo denuncia violazione dell'articolo 935 c.p.c., e, con richiamo al principio enunciato nella sentenza n. 651/1996, ne deduce travisamento, rivendicando il suo diritto di credito in forza dell'accessione.

Formula quesito di diritto, con cui chiede se il fondamento del diritto di credito alla meta' del valore della costruzione discenda dal principio dell'accessione e se si presuma di tale entita' salva la prova del coniuge proprietario d'aver impiegato denaro personalissimo.

I tre motivi, logicamente connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Riconosciuta all'attrice la sola tutela obbligatoria subordinata alla dimostrazione dell'impiego del patrimonio comune nell'edificazione del manufatto di proprieta' del marito, la Corte territoriale ha escluso che gli apporti parentali di cui ha beneficiato il Ca. rappresentassero donazioni indirette che, affette da nullita' in assenza della forma prescritta, potessero costituire attribuzioni patrimoniali ricadenti nel regime di comunione legale radicando il diritto di credito dell'attrice quanto meno alla meta' delle spese. Le ha qualificate donazioni manuali rivolte al solo familiare, che non concorrono a formare il diritto di credito dell'altro coniuge. Premesso che il Ca. non era tenuto a dimostrare d'aver costruito con denaro proprio, ma piuttosto la Da. aveva l'onere di provare l'impiego nella costruzione di denaro suo o comune, ha ritenuto la prova offerta dall'attrice in ordine al suo apporto di denaro impiegato per la costruzione del manufatto contraddittoria e poco credibile. Il contratto di mutuo prodotto e' posteriore alla realizzazione dell'immobile.

Tale decisione, corretta nella sua premessa, conforme ad interpretazione consolidatasi in materia sul solco della pronuncia delle S.U. n. 651/1996, nonche' nella sua conclusione, va rettificata nella parte motivazionale. Per costante giurisprudenza, il principio dell'accessione sancito nell'articolo 934 c.c., secondo cui il proprietario del suolo acquista al momento dell'incorporazione la proprieta' della costruzione su di esso edificata, opera, salvo deroga pattizia o legale, ancorche' la costruzione sia stata realizzata in costanza di matrimonio e nella vigenza del regime di comunione legale. "L'acquisto della proprieta' per accessione, infatti, avviene a titolo originario senza la necessita' di apposita manifestazione di volonta', mentre gli acquisti ai quali e' applicabile l'articolo 177 c.c., comma 1, hanno carattere derivativo, essendone espressamente prevista una genesi di natura negoziale, con la conseguenza che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale da entrambi i coniugi sul terreno di proprieta' personale esclusiva di uno di essi e' a sua volta proprieta' personale ed esclusiva di quest'ultimo"- Cass. n. 7060/2004 -. L'esigenza di deroga espressa posta dall'articolo 934 c.c., esclude che possa attribuirsi tale natura al disposto dell'articolo 177, lettera a), che, nulla prevedendo a riguardo, regolamenta in via generale gli acquisti del singolo coniuge in regime di comunione legale.

La tutela del coniuge non proprietario del suolo non opera percio' sul piano del diritto reale, ma su quello obbligatorio del diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge le spese affrontate per la costruzione medesima - Cass. citata nonche' nn. 8585/1999, 4076/1998, 2354/2005 -.

Nel caso di specie, indiscusso che la costruzione venne realizzata su suolo di proprieta' personale del Ca. , questi pur non essendone onerato, ha dedotto e provato d'aver impiegato per la realizzazione del manufatto esclusivamente beni personali, ovvero provenienti da apporti dei familiari, che di certo non entrarono a far parte della comunione legale. L'altro coniuge, odierna ricorrente, onerata della prova d'aver prestato il suo personale sostegno economico alla costruzione, non solo non ha contestato la circostanza di fatto addotta dal convenuto, ma non ha ne' allegato ne' dimostrato una sua prestazione, diversa dall'assistenza e dal sostegno morale, affettivo e manageriale che assume d'aver fornito alla famiglia con allegazione del tutto ininfluente e peraltro inammissibile perche' dedotta solo in questa sede, il suo diritto alla tutela obbligatoria, consistente come rilevato nel riconoscimento del diritto di credito pari alla meta' del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione, postulava la dimostrazione del suo contributo economico agli esborsi sostenuti per la costruzione dell'immobile, proveniente da risorse personali ovvero ricadenti in comunione, che la predetta non ha dedotto in sede di merito, ne' tanto meno ha tentato di fornire. Nessuno dei motivi in esame censura l'omessa valutazione di fatti e circostanze che dimostrassero il suo esborso economico di cui si fosse giovato il coniuge per sostenere l'onere della costruzione. Piuttosto si prospetta l'avvenuto acquisto degli apporti parentali offerti al Ca. dai suoi familiari, che rappresenta, alla luce dei principi enunciati, un dato irrilevante.

Ai quesiti di diritto formulati nel ricorso deve rispondersi che la costruzione realizzata in costanza di matrimonio ed in regime di comunione legale sul terreno di proprieta' personale esclusiva di uno dei coniugi e' di proprieta' personale ed esclusiva di quest'ultimo in virtu' dei principi generali in materia di accessione. L'altro coniuge, che pretenda di ripetere le somme spese, e' onerato della prova d'aver conferito il proprio apporto economico per la realizzazione della costruzione attingendo a risorse patrimoniali personali o comuni; di contro il coniuge proprietario non e' tenuto a dimostrare d'aver impiegato denaro personale ne' personalissimo.

Le considerazioni che precedono comportano il rigetto del ricorso con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte:

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in euro 2.700,00 di cui euro 200,00 per esborsi oltre spese generali ed accessori di legge.

Opposizione a decreto ingiuntivo - La tardiva costituzione dell’opponente va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta l’improcedibilità dell’opposizione Corte di Cassazione – Sentenza n. 19246 del 9 Settembre 2010

(...)
Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce l’omessa e/o insufficiente motivazione circa punti decisivi, in riferimento agli art. 645, 2° comma, 647 c.p.c., sostenendo che la corte d’appello si sarebbe acriticamente adagiata sull’orientamento della giurisprudenza di legittimità, senza considerare il rilievo, formulato nell’atto di gravame, secondo cui perché possa operare l’abbreviazione dei termini di comparizione assegnati al creditore opposto è necessaria una consapevole manifestazione di volontà dell’opponente di avvalersi della facoltà prevista dalla legge, formulata in modo esplicito o desunta da elementi concludenti. Nella specie non sarebbero state adeguatamente valutate le circostanze che il termine di comparizione assegnato era di soli sette giorni inferiore a quello minimo e che la costituzione era avvenuta il nono giorno, il che doveva far propendere per un mero errore materiale nel calcolo del termine di comparizione. A ritenere irrilevante l’errore si introdurrebbe una presunzione assoluta di esercizio della facoltà di abbreviazione dei termini da parte dell’opponente non prevista dalla legge, trasformando la facoltà in un obbligo. Inoltre, il ricorrente afferma che la previsione della rinnovazione della citazione (art. 164 c.p.c.) nel caso di assegnazione di un termine inferiore a quello di legge dovrebbe trovare applicazione anche nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione, essendo insufficiente il riferimento alla specialità del rito per giustificare l’applicazione di una sanzione, quale quella della improcedibilità.

Con il secondo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione dell’art. 645, 2° comma, con riferimento all’art. 647 c.p.c., si sostiene che al giudizio di opposizione, come previsto dall’art. 645 c.p.c., deve applicarsi la disciplina del procedimento ordinario e pertanto in caso di costituzione in giudizio, non omessa, ma semplicemente ritardata, non sarebbe giustificata la sanzione processuale dell’improcedibilità, prevista soltanto per il giudizio di appello dall’art. 348 c.p.c., come modificato dalla legge n. 353 del 1990. Viene anche denunciata l’incoerenza consistente nel ritenere inapplicabile, per la specialità del rito, l’art. 164 c.p.c. facendo allo stesso tempo applicazione del disposto dell’art. 165 e 163 bis c.p.c.
Con il terzo motivo, il ricorrente deduce errata o falsa applicazione dell’art. 645, comma 2, c.p.c., in quanto non sarebbe corretta l’estensione della riduzione del termine di costituzione previsto dall’art. 165, per il caso in cui il giudice abbia autorizzato la riduzione del termine minimo a comparire, all’ipotesi in cui la riduzione del termine di comparizione sia conseguenza di una mera scelta di parte.

2. Le ragioni addotte dal ricorrente, in parte recepite e sviluppate nell’ordinanza interlocutoria della prima sezione civile, non sono idonee a giustificare un mutamento del costante orientamento della corte, anche se, come sarà in seguito precisato, è opportuno procedere a una puntualizzazione. A parte un unico risalente precedente contrario, rimasto assolutamente isolato (Cass. 10 gennaio 1955 n. 8), la giurisprudenza della corte è stata costante nell’affermare che quando l’opponente si sia avvalso della facoltà di indicare un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, il termine per la sua costituzione è automaticamente ridotto a cinque giorni dalla notificazione dell’atto di citazione in opposizione, pari alla metà del termine di costituzione ordinario (principio affermato, nel vigore dell’art. 645, come modificato con l’art. 13 del d.p.r. n. 597 del 1950 a cominciare da Cass. 12 ottobre 1955, n. 3053 e poi costantemente seguito; da ultimo, v. Cass. n. 3355/1987, 2460/1995, 3316 e 12044/1998, 18942/2006).

Più recentemente, nell’ambito di tale orientamento, si è ulteriormente precisato che l’abbreviazione del termine di costituzione per l’opponente consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello ordinario, essendo irrilevante che la fissazione di tale termine sia dipesa da una scelta consapevole ovvero da errore di calcolo (Cass. n. 3752/2001, 14017/2002, 17915/2004, 11436/2009).
Contrariamente a quanto ritenuto da una parte della dottrina l’orientamento ora richiamato non è privo della necessaria base normativa.


Se, infatti, è vero che nella formulazione originaria del codice del ‘42, l’art. 645, 2° comma prevedeva la riduzione a metà dei termini di “costituzione”, mentre nell’attuale formulazione della disposizione la riduzione a metà si riferisce solo ai termini di “comparizione”, dai lavori preparatori non emerge tuttavia che la modifica testuale sia stata introdotta per ridimensionare la funzione acceleratoria della riduzione a metà dei termini di costituzione prevista dalla disciplina previgente, ma solo che la norma era stata imposta come necessaria conseguenza dalla introduzione del sistema della citazione ad udienza fissa.
Non esiste, peraltro, nessuna ragione oggettiva che giustifichi l’opposta opinione che reputa che il silenzio del legislatore in ordine alla disciplina dei termini di costituzione, a fronte della espressa previsione contenuta nella disciplina previgente, sia significativo della volontà di cambiare la regola, espressamente affermata dall’art. 165, 1° comma, c.p.c. che stabilisce un legame tra termini di comparizione e termini di costituzione, al fine di rendere coerente il sistema nei procedimenti che esigono pronta trattazione. Ne deriva che tale regola, non può certo ritenersi di natura eccezionale o derogatoria, ma espressione di un principio generale di razionalità e coerenza con la conseguenza che l’espresso richiamo nell’art. 645 di tale principio sarebbe stata del tutto superflua.


Né appare decisivo il rilievo, indubbiamente corretto, della differenza esistente tra la fattispecie di cui all’art. 163 bis, 2° comma, c.p.c., nella quale l’abbreviazione dei termini è conseguenza dell’accertamento da parte del giudice della sussistenza delle ragioni di pronta trattazione della causa prospettate dall’attore, e di quella di cui all’art. 645 c.p.c., nella quale tale apprezzamento è compiuto (non dalla parte, come sostiene l’ordinanza di rimessione, ma direttamente) dal legislatore una volta per tutte, essendo in entrambe le fattispecie identica la funzione del dimezzamento dei termini di comparizione, consistente, da un lato, nel soddisfare le esigenze di accelerazione della trattazione e dall’altro, nell’opportunità di bilanciare la compressione dei termini a disposizione del convenuto con la riduzione dei termini di costituzione dell’attore.
Essendo pacifica la sussistenza dell’esigenza di sollecita trattazione dell’opposizione, diretta a consentire la verifica della fondatezza del provvedimento sommario ottenuto dal creditore inaudita altera parte, deve osservarsi che sussiste anche l’esigenza di bilanciamento delle posizioni delle parti, pur tenendo conto della peculiarità del giudizio di opposizione che, come è noto, ha natura di giudizio di cognizione piena che devolve al giudice della opposizione il completo esame de rapporto giuridico controverso, e non il semplice controllo della legittimità della pronuncia del decreto d’ingiunzione. È anche pacifico che, a differenza dalle qualità formali, le posizioni dell’opponente e dell’opposto sono quelle, rispettivamente, di convenuto e di attore in senso sostanziale. Ora, se è vero che l’opposto ha avuto tutto il tempo di impostare la propria posizione processuale prima di chiedere il decreto ingiuntivo, resta anche vero che, di fronte alle allegazioni e alle prove, prodotte o richieste, dall’opponente, l’opposto ha necessità di valutarle per apprestare le sue difese e a tal fine sussiste l’esigenza di avere a disposizione i documenti sui quali si fonda l’opposizione nel più breve tempo possibile, per riequilibrare il sacrificio del termine a sua disposizione per valutare tali prove e articolare le difese prima della propria costituzione in giudizio.

Ciò che è indubbio è che certamente la necessità di sollecita trattazione dei procedimenti di opposizione meglio sarebbe stata soddisfatta se oltre alla riduzione a metà dei termini di costituzione dell’opponente il legislatore avesse anche ridotto in misura congrua i termini di costituzione dell’opposto, che invece restano abbastanza ampi (trentacinque giorni dalla notifica dell’opposizione e cioè dieci giorni prima dell’udienza che deve essere fissata a non meno di quarantacinque giorni dalla notifica stessa, ai sensi dell’art. 166 c.p.c.), ma tale opportunità di assecondare “l’euritmia del sistema” (corte cost. n. 18/2008), non incide sulla fondatezza del rilievo che il dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, comunque rappresenta una, sia pur parziale e, forse, insoddisfacente, misura di accelerazione del procedimento.
3. Una parte della dottrina, ripresa anche dall’ordinanza della prima sezione civile, ha osservato che la lettera dell’art. 645 c.p.c. induce a ritenere che il dimezzamento dei termini di comparizione sia un effetto legale della proposizione dell’opposizione e non dipenda invece dalla volontà dell’opponente che intenda assegnare un termine inferiore a quello previsto dall’art. 163 bis c.p.c.
In effetti esigenze di certezza e quindi di garanzia delle parti, di fronte alla previsione di termini previsti a pena di procedibilità dell’opposizione, ha già portato a introdurre nell’orientamento tradizionale, basato sulla facoltatività della concessione da parte dell’opponente di un termine a comparire inferiore a quello legale, il temperamento costituito dall’affermazione dell’irrilevanza della volontà dell’opponente che potrebbe avere assegnato un termine inferiore anche solo per errore.
Ritengono le sezioni unite che esigenze di coerenza sistematica, oltre che pratiche, inducono ad affermare che non solo i termini di costituzione dell’opponente e dell’opposto sono automaticamente ridotti alla metà in caso di effettiva assegnazione all’opposto di un termine a comparire inferiore a quello legale, ma che tale effetto automatico è conseguenza del solo fatto che l’opposizione sia sfata proposta, in quanto l’art. 645 c.p.c. prevede che in ogni caso di opposizione i termini a comparire siano ridotti a metà. Nel caso, tuttavia, in cui l’opponente assegni un termine di comparizione pari o superiore a quello legale, resta salva la facoltà dell’opposto, costituitosi nel termine dimidiato, di chiedere l’anticipazione dell’udienza di comparizione ai sensi dell’art. 163 bis, terzo comma.
D’altra parte, se effettivamente il dimezzamento dei termini di costituzione dipendesse dalla volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, non si capirebbe la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sono cumulatali il dimezzamento che deriva dalla astratta previsione legale di cui all’art. 645 c.p.c. con quello che può discendere da un apposito provvedimento di dimezzamento di tali termini richiesto ai sensi dell’art. 163 bis, 3 comma. (Cass. n. 4719/1995, 18203/2008).
Né potrebbe indurre a diverse conclusioni l’osservazione che, se si ritiene irrilevante la volontà dell’opponente di assegnare un termine di comparizione inferiore a quello legale, potrebbe sorgere il dubbio che il sacrificio del suo termine di costituzione possa essere ingiustificato, alla luce dell’art. 24 cost., come potrebbe desumersi da corte cost. n. 38/2008. Infatti, l’effetto legale del dimezzamento dei termini di costituzione dell’opponente, dipendente sia solo fatto della proposizione dell’opposizione, è pur sempre un effetto che discende dalla scelta del debitore che non può non conoscere quali sono le conseguenze processuali che la legge ricollega alla sua iniziativa.
Infine, la diversa ampiezza dei termini di costituzione dell’opponente rispetto a quelli dell’opposto non appare irragionevole posto che la costituzione del primo è successiva alla elaborazione della linea difensiva che si è già tradotta nell’atto di opposizione rispetto al quale la costituzione in giudizio non richiede che il compimento di una semplice attività materiale, mentre nel termine per la sua costituzione l’opposto non è chiamato semplicemente a ribadire le ragioni della sua domanda di condanna, oggetto di elaborazione nella fase anteriore alla proposizione del ricorso per decreto ingiuntivo, ma ha la necessità di valutare le allegazioni e le prove prodotte dall’opponente per formulare la propria risposta.

4. È consolidato orientamento di questa Corte che nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la tardiva costituzione dell’opponente va equiparata alla sua mancata costituzione e comporta l’improcedibilità dell’opposizione (Cass. n. 9684/1992, 2707/1990, 1375/1980; 652/1978, 3286/1971, 3030/1969, 3231/1963, 3417/1962, 2636/1962, 761/1960, 2862/1958, 2488/1957, 3128/1956). È innegabile infatti, da una parte, che la specialità della norma di cui all’art. 647 c.p.c. impedisce l’applicazione della ordinaria disciplina del processo di cognizione, e dall’altra, che la costituzione tardiva altro non è che una mancata costituzione nel termine indicato dalla legge. Il ricorrente non ha prospettato ragioni decisive che possano indurre la Corte a discostarsi da tale orientamento. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi, in relazione al dibattito esistente sulle questioni oggetto del presente giudizio, per compensare le spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Depositata in Cancelleria il 09.09.2010

mercoledì 13 ottobre 2010

Il "preliminare del preliminare", secondo Cass., civ., Sez. II, 2.4.2009, n. 8038

Nella sentenza menzionata, la seconda sezione civile della Suprema Corte ribadisce un importante principio di diritto in materia di contratto preliminare.
La vicenda giudiziaria trae origine da una scrittura privata stipulata dalle parti in causa, con la quale una parte aveva formulato una proposta irrevocabile di acquisto di un immobile per un certo prezzo, di cui una quota da versare a titolo di caparra e la restante come meglio specificato nel successivo preliminare, che avrebbe dovuto essere concluso nei 30 giorni successivi. Contratto, tuttavia, mai stipulato a seguito del rifiuto di adempiere dell'aspirante acquirente, dopo che gli era stata comunicata l'accettazione della proposta.
La Suprema Corte risolve la questione muovendo dalla qualificazione giuridica dell'accordo negoziale intervenuto tra le parti. Nel caso di specie, la Cassazione provvede a definire l'accordo controverso in termini di "preliminare del preliminare", come tale privo di effetto vincolante per le parti contraenti, secondo le opinioni maggioritarie espresse in dottrina e giurisprudenza.
La Suprema Corte coglie l'occasione per chiarire che "qualora, ai fini di una compravendita, le parti si impegnino a concludere un futuro contratto con effetti obbligatori che le vincoli a stipulare successivamente la vendita definitiva, laddove l'aspirante acquirente formalizzi un'offerta, senza passaggio di denaro, cui segue l'accettazione da parte dell'alienante, l'accordo raggiunto tra le parti deve essere qualificato soltanto quale preliminare del contratto preliminare - tecnicamente collocabile nella fase delle trattative, sia pure nello stato avanzato della "puntuazione" - destinato a fissare il contenuto del successivo negozio, ma senza alcun effetto vincolante per le parti".
Non esiste, infatti, nel nostro ordinamento giuridico un preliminare del contratto preliminare avente la medesima validità ed efficacia del contratto preliminare e ciò in quanto l'art. 2932 c.c. instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare in maniera effettiva l'assetto di interessi programmato dalle parti.
L'"obbligarsi ad obbligarsi" determinerebbe soltanto un inutile ed inconcludente giro procedimentale, non sorretto da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento: non ha senso pratico promettere ora, di promettere in seguito qualcosa, anziché prometterlo subito.
In questo senso, la sentenza n. 8038/09 della Corte di Cassazione non si discosta dall'orientamento seguito dalla dottrina e giurisprudenza dominante laddove si afferma che l'accordo concluso tra le parti, e qualificabile come preliminare del preliminare, deve essere considerato invalido per mancanza di causa. Il medesimo, costituisce, pertanto, esplicazione delle trattative, sia pure nello stato avanzato della "puntuazione", come tale destinato a fissare il contenuto del successivo negozio, ma senza avere effetto vincolante per le parti.